PAESAGGI URBANI E LUOGHI DELL’ARTE

di Maria Vinella

“La bellezza non è nella cosa guardata
ma negli occhi che la guardano”
(Maurice Merleau-Ponty)

Fuori dalla storia, tutti simili tra loro, i paesaggi urbani della contemporaneità vivono in un eterno e caotico presente privo di un’anima e di un corpo, immemori del passato e incapaci di prevedere il futuro. Ammassi spaziali informi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, essi sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata dalla assoluta precarietà, dal transito solitario, dalla pericolosa provvisorietà.
“La trasformazione della vita urbana, rispetto a città e metropoli del passato, è consistente: si può dire che presuppone una forma nuova di civiltà. (…) antenne, rete, cavi elettrici, fognature e condutture dell’acqua rappresentano le infrastrutture della nuova società” (Javier Echeverrìa).
Dalla nascita alla decadenza, secondo lo studioso Patrick Geddes, la polis è passata attraverso cinque stadi di evoluzione e di involuzione: la polis primitiva, la metropolis (città grande ma sana), la megalopoli (città malsana e troppo estesa), la parassitopoli (che dissangua i propri abitanti, la patopolis (la città malata, abbandonata e moribonda).
A questi stadi, soprattutto dal XIX secolo in poi, l’immaginario visionario di molti artisti ha dedicato numerosissime opere d’arte. Soprattutto dai luoghi delle metropoli moderne, alcuni artisti hanno colto suggerimenti e suggestioni per mostrare l’esaltazione dell’accelerazione temporale e la frammentazione della moltiplicazione spaziale. Futuristi, suprematisti, costruttivisti, grandi maestri come Boccioni, Tatlin, Leger, Delaunay, Klee, Pollock ecc. hanno dipinto strade, insegne, veicoli, architetture, e hanno dato corpo a nuovi colori e nuove forme, a modi differenti di vedere, di percepire, di comprendere.
Oggi, l’habitat degradato delle metropoli postmoderne evidenzia il mosaico impazzito e anonimo dei non-luoghi urbani (come li definisce l’antropologo Marc Augé), carichi dei difetti e dei malesseri della città-labirinto, della città delle merci, della città-gabbia, della città del vuoto e del nulla.
Proprio a tali rilevanti tematiche, da circa un decennio, l’artista Alba Amoruso dedica le personali ricerche visive e pittoriche. Ricerche rigorose e raffinate che, progressivamente, stanno conducendo all’elaborazione di molteplici e suggestivi cicli di opere. Difatti, con grande passione e tenace dedizione, grazie alla sottile ma determinante vena lirica, la sensibilità dell’artista pugliese è riuscita ad esprimere - attraverso i temi attualissimi dell’ambiente urbano – l’emozione del proprio sentire e la creatività della propria capacità visionaria.
Già nel 1999, dopo anni dedicati ad una tipologia di rappresentazione figurativa elegante e delicata, nasce una serie di cicli pittorici destinati alle architetture delle città. Nel catalogo “Tensioni”, sempre del ’99, la documentazione dei dipinti della serie “Resti di città” mostra le prime immagini di devastazione e di distruzione ambientale. Negli anni a seguire, l’artista ricompone le proprie raffigurazioni urbane in immagini di grandi metropoli ricche di fasti e di luci, di movimento e di vita. Nel 2001 la città sana e vitale inizia ad assumere le forme e le cromie di una spazialità degenerata. Nasce la serie pittorica delle “Megalopoli”.
Attraverso un ciclo di grandi dipinti documentato nella ricca monografia “La voce muta delle cose”, Alba Amoruso racconta il percorso disumano e mostruoso di una città smisurata e vorace, frutto di una urbanizzazione incontrollata e di una abnorme proliferazione macchinina. L’iconografia inquietante di un disordine artificioso e innaturale domina nei quadri. Fari e grattacieli, fumi grigi e vapori sporchi, volumi metallici e piani obliqui mostrano una spazialità da incubo, fatta di atmosfere cupe e colori opachi, forme sfocate e luci abbaglianti.
Come descrive l’artista: “Senza respiro, nasce una città nuova, con la sua personale storia di volumi urbani distorti, esasperate prospettive ai piedi delle quali scorrono fiumane di uomini e di macchine, enormi sopraelevate che le spaccano il cuore. Un mondo di ecomostri che soffocano qualsiasi spazio a dimensione umana”.
La tecnica esecutiva prevede realizzazione di grandi e medie tempere murarie su stucco. Le opere sono realizzate mediante uno scavo sia della materia che del colore; con il dripping d’acqua e l’uso di spugne, le cromie aspre e terrose vengono dissolte, le superfici scarnificate, le forme cancellate e graffiate. Le superfici pittoriche, esasperate del gesto, restituiscono immagini indefinite e suggestive.
Le opere del ciclo “Megalopoli”, realizzate nel quinquennio successivo al 2000, costituiscono una grande prova stilistica per l’artista e vengono esposte in numerose e importanti mostre sia in Italia che all’estero. Gli spaccati di una quotidianità stravolta dal progresso, le deformazioni di una percezione espressionistica, le atmosfere soffocanti di un paesaggio antropico ormai degenerato, sono evidenti nelle serie pittoriche “Ecomostri” e “Stazioni” del 2000, nelle “Acciaierie” del 2001, nelle “Aree industriali” del 2002 e – ancora – nelle “Soprelevate” dedicate alle tortuose visibilità urbane, “Acque reflue” e nei “Vertical village”, dove i binari dei treni e i tunnel ombrosi, le acque malsane e le file d’auto, intasano la spazialità claustrofobica delle enormi visioni cittadine.
Racconta l’artista nel catalogo “Megalopoli” del 2004: “Odore di ruggine e fuoco al di là della secca chiostra dei grattacieli, non più cielo. Un mondo ostile e alienante si nasconde in scenari urbani inquietanti, dove la vita frettolosamente si consuma. Una spessa rete di ragno fatta da strade, tunnel, sopraelevate, strangola gli abitanti … il malessere diventa solido e oscura la luce del sole … solitudine, nevrosi, incomunicabilità: la vita si ammala”.
Ai diurni caoticamente solari e luminosi delle “Metropoli”, si sostituiscono, nel 2005, le tele dedicate a “Le città impossibili” e alle “Urban Jungle”, ovvero le prime minacciose “Patopoli”. Il nuovo ciclo pittorico rappresenta notturni lugubri e veggenti, prospettive soffocate e combuste, presagi di un oscuro futuro. Lentamente decomposte, le città sono irreparabilmente ammalate di smog, traffico, disordine, inquinamento.
Le patologie della metropoli morente assumono il significato vere e proprie foreste di tubi metallici, tralicci, grate. I monocromi dai toni bruni, creano le parvenze di imponenti ammassi di ombre spezzate da lividi lampi; rotaie vorticose si inerpicano tra aggrovigliati grattacieli e, sotto tunnel neri, ingranaggi di pulegge e metalliche bocche eruttano acque impure. Anche il cielo, assediato da nubi tossiche, è privo di luce, opacamente ferito.
In “Invasion” (prima metà del 2006) la città caotica diventa una gabbia per gli abitanti, una gabbia attaccata da sciami di insetti furiosi: anche la natura non riconosce più l’uomo come specie terrestre e, minacciosamente, cerca varchi tra i grattacieli, invadendo i pochi spazi rimasti integri. Il paesaggio si fa apocalittico.
Nelle zone grigie dei gas di scarico, dove tutto è impuro e scuro, e dove anche l’acqua è contaminata, Alba Amoruso mette in scena l’ultimo atto della tragedia globale che pervade ormai tutte le metropoli del mondo. Nello scenario desolato, le atmosfere cupe fermano il tempo. Il colore grumoso, le sciabolate luminose, i tagli dello spazio danno corpo all’urlo di protesta che respinge il degrado ambientale e umano.
Ormai solo la consapevolezza di un danno - forse non più riparabile - può farci aprire gli occhi. Unicamente lo sguardo dell’artista e la voce del poeta riescono a proiettarsi lontano.

Maria Vinella

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