IL DANNATO CANTO DELLE METROPOLI

Rivista d’arte Stile-testo di Maurizio Bernardelli Curuz, Brescia (gennaio 2004)

Ciò che nel Futurismo si profilava come un canto alla civiltà urbana- e ai suoi ritmi frenetici, che avrebbero per sempre cancellato l’uomo antico, individuali psicologie, il canto tremulo di un io titanico con l’universo ridisegnato nelle macchine, nelle opere di Alba Amoruso si fa cromatica ossessione del moderno, con fiumane di macchine e di persone, periferie, ciminiere, stazioni spopolate, notturni desolati, scoli di acque reflue.
L’artista pugliese fondamentalmente canta la fine di un modello di civiltà che si basa sul consumo di sé e sul sacrificio dell’umano, sulla massificazione e sul sistematico, rituale omicidio dell’ individualità a favore della mostruosa quinta urbana, che pur seduce visivamente con le sue immense membra sincrone, quanto il sublime salto di una cascata, il fulmine e l’impeto del cielo riempivano i taccuini dei viaggiatori romantici, colti da un temporale al passo o costretti a camminare su mulattiere infide, contro rocce oscure. Si sviluppava, anche in quella prospettiva, l’attrazione al cospetto dell’abnorme, del mostruoso naturale, attraverso la descrizione di un Golem che, gigantesco come il mostro guerresco attribuito al Goya, potesse conculcare l’esilità delle esistenze umane.
I cementi cromaticamente accesi di Amoruso configurano realmente l’eternità- e pertanto la natura divina- della città, poiché gli uomini in essa vivono, si riproducono e muoiono nella barriera corallina dei loro grigi prodotti come da piccoli polipi ubriachi di razionalità, lasciando dietro di sé esclusivamente la conurbazione e la conglomerazione, e quelle immense cavità destinate ad essere occupate da altri uomini senza memoria dei precedenti. La memoria terribile di un’umanità che non coltiva la propria sovranità, racconta Amoruso attraverso i suoi dipinti, sta nel tessuto urbano, quasi che il cervello del moderno sia spalmato sulle superfici delle case e innervato nel reticolo delle finestre.
Amoruso odia e contempla il semidio urbano che rapina i suoi costruttori, infliggendo loro la pena di una prigionia labirintica, senza speranze di cielo, giacchè non esiste proiezione di azzurro nei suoi dipinti al di là della secca chiostra dei grattacieli, ma un’atmosfera lutulenta e polverosa come nella kafkiana dannazione della modernità che lo scrittore praghese raccontò in modo ossessivo nel romanzo “America”.
La città che già Ottone Rosai evocò attraverso superfici verticali, preponderanti e claustrofobiche- ma Rosai, lo sottolineamo, dovette riconoscere nel proprio codice genetico la radice futurista – torna potenziata in Alba Amoruso che coglie matericamente la possanza architettonica delle metropoli, la coglie assumendo la cifra di una deformazione espressionista, laddove la velocità e il ritmo tachicardico deforma le cime dei palazzi sospingendole verso il basso, piegando i lampioni verso i nastri d’asfalto. Il recupero critico della poetica della simultaneità, - tra maggiori segmenti del percorso futurista- è rappresentato in Amoruso da quelle auto convergenti, dagli aspri musi strombati che la pittice dipinge nel corso torrenziale di una periferia urbana, simili allo scarico, da una motonave, di uno squinternato flusso di sardine metalliche che appaiono corrusche sotto un’aria perennemente malata, con l’odore di ruggine amara, di fuoco e di cromo.

Maurizio Bernardelli Curuz

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